Ad Expando

mercoledì 22 giugno 2011

Un secco no al federalismo


Ponessimo il federalismo sul piatto di un ipotetica bilancia, non ci sarebbe alcun dubbio che il piatto penderebbe dalla parte dei vantaggi.
Vi domanderete allora, perché un "no", secco per di più.
Semplice: perché ho parlato di ipotetica bilancia, non di bilancia specifica e, nello specifico, se mi perdonate il pessimo gioco di parole, della bilancia italiana.
Già, perché i teorici del federalismo ci raccontano che delocalizzare i poteri verso entità decentrate, più vicine al cittadino, permetterebbe da una parte di raccogliere in modo migliore le esigenze della popolazione e garantirebbe, dall'altra, un vicendevole controllo tra cittadino stesso ed ente preposto, con conseguente diminuzione dell'evasione fiscale da una parte e maggior responsabilità di spesa dall'altra.
Idilliaco; senonché, in questo Paese, delocalizzare significherebbe di fatto moltiplicare gli enti, quindi il personale, e detto "in soldoni", aumentare ancora la spesa pubblica. 
Non solo: moltiplicando gli enti si suddividerebbero le responsabilità a tal punto che non sarebbe possibile determinare a chi ascrivere la vera colpa di un disservizio. 
C'è di più, ovviamente. 
Come ho sempre sottolineato nei miei post, diciamo "politici", non è tanto l'idea che conta, quanto gli uomini che la devono rendere reale.
Nel caso italiano, l'idea del federalismo evoca le bandiere verdi della Lega Nord, un'accozzaglia di presuntuosi politicanti, che salvo qualche eccezione, faticano a esprimere concetti che siano qualche cosa di più qualificante che slogan elettorali, per altro di una rozzezza disarmante.
Ho visto nascere il movimento leghista (ancora quando si chiamava Lega Lombarda) sin dai primi vagiti quando la voce gracchiante di Bossi veniva supportata, a fasi alterne, con un rapporto di amore-odio, dall'intelligenza di Miglio. 
Se ognuno di noi è la propria storia vediamo dunque cos'è la Lega.


Nasce come movimento razzista nel lontano 1982 al grido di "Roma ladrona" con tanto di cartelloni  e "a casa i terroni" gridato nei vari comizi da esponenti e base. Da subito si cercano appigli storici per creare una qualche giustificazione delle strampalate teorie. Si parte con il simbolo, l'Alberto da Giussano, che troneggia in quel di Legnano. Una sorta di milite ignoto, giacché del venerato eroe della Compagnia della Morte non si ha traccia storica se non in uno scritto di un monaco domenicano al soldo dei Visconti, nato oltre un secolo dopo la battaglia di Legnano. Nessuna fonte diretta, dunque, più prosaicamente un po' di "sana" agiografia. 
Ma il tanto decantato Carroccio, divenuto simbolo durante il Rinascimento del nazionalismo italiano (non padano!) era presente sul campo di battaglia, non tanto per una lotta tra liberi comuni e Imperatore, bensì nel mezzo di una guerra fratricida tra comuni italiani (Novara, Como, Monza e Pavia erano fedeli all'Imperatore, Cremona e Lodi cambiarono bandiera all'ultimo), sobillati dal Papato o spinti dalle proprie mire di egemonia (Milano si era di fatto avocato il diritto di riscossione delle tasse imperiali), mentre la presenza del Barbarossa era determinata semplicemente dalla richiesta di aiuto dei comuni a lui fedeli.
In sostanza scelsero il simbolo di un personaggio inventato che avrebbe, se fosse esistito, combattuto in una battaglia fratricida tra comuni del Nord!
Poi nacque l'idea dei Celti, visto che storicamente il Nord Italia veniva configurato in epoca Romana come Gallia Cisalpina. 
Anche qui va detto che la Gallia come Stato politico dei Galli, o Celti che dir si voglia, non è mai esistito, come non è mai esistita una "padania" che è, a tutti gli effetti, un neologismo.
C'è però un filo logico. I Celti allora, come i comuni italiani poi, ragionavano in termini di tornaconto della singola tribù o della singola città. Tribù galliche si allearono ora con i Romani (Cenomani) ora contro (Insubri e Boi) e, stessa cosa nel Medioevo avvenne con i Comuni contro l'Impero degli Svevi. 
La leva era, ed è tutt'ora, l'egoismo del singolo i cui interessi devono essere al di sopra di quelli degli altri.
Basterebbe questo per identificare la forma mentis dell'establishment leghista e per valutare l'opportunità di dare a loro il proprio voto. Ma si sa finché a qualcuno conviene...
Comunque sia, la Lega fece breccia nel Nord, non solo per i singoli egoismi sapientemente sobillati ma, ovviamente, anche grazie alla situazione disastrosa del Sud Italia e al suo continuo fagocitare risorse senza mai fare passi in avanti significativi. 
E questo è, ahimè, un dato di fatto.
Iniziò come voto di protesta, divenne ben presto una speranza che, alla luce dei fatti, dopo oltre un quarto di secolo di slogan, si può dire decisamente mal riposta.
Ad ogni modo si passò dal federalismo autonomista, alle macro regioni, alla secessione, alla devolution. 
A fare presa ovviamente fu la secessione che ancor oggi viene ripetuta come un mantra dalla base elettorale sempre più insoddisfatta e che, ormai, persino il leader massimo del movimento si ritrova sempre più in difficoltà a contenere.
Comunque sia, la Lega rivendica più potere al Nord e per farlo vuole, come ultima trovata, spostare dei ministeri nella neonata provincia Brianzola (e per fortuna che dovevano abolirle, le Province) e a Milano. Mentre un sempre più derelitto Primo ministro nicchia, parlando di dipartimenti, Roma insorge rivendicando il suo ruolo di Capitale: i ministeri non si toccano. 
Chi abbia ragione non si sa, di certo, in un momento di crisi esasperata (e per fortuna che era già passata due anni fa, a detta del signor B.), l'idea che lo spostamento di Ministeri sia cosa prioritaria fa venire il cosidetto latte alle ginocchia. Purtroppo di questo tipo di latte la UE non stabilisce quote e multe per chi eccede, e comunque sia, se lo facesse, la Lega sarebbe pronta a difendere i banditi delle quote latte in cambio di una manciata di voti.
In fondo si tratta di spendere soldi per trasferire ministeri (alcuni senza portafoglio) per creare una manciata di posti di lavoro e avere quindi il doppio dei dipendenti, visto che è fin troppo ovvio che è impossibile licenziare i lavoratori romani. 
Insomma, stanchi di "Roma ladrona" si vuol dar vita ed una sorta di "Brianza ladrona", con tanto di cumenda  dagli elmi cornuti, spade sguainate e trote al seguito.
Più che una "boiata" sarebbe uno scempio e, intendiamoci, lo sarebbe anche per le logiche politiche che all'apparenza la Lega ha sempre detto di adottare: non si può pensare di gridare "al ladro" e poi pretendere di avere la propria parte di bottino e rimanere comunque immacolati. Sarebbe stata, mi correggo , giacché di poche ore fa i proclami di Pontida di domenica sono finiti in nulla. Il topolino ha partorito il topolino: nulla di eclatante.
Non è comunque solo questione di ministeri purtroppo: la Lega pur facendosi paladina della diminuzione, se non dell'annullamento degli sprechi è il partito che ha imposto il perdurare delle Province e la sua moltiplicazione.
Il motivo non è poi difficile da immaginare: c'è bisogno di piazzare i propri adepti, nella perversa logica di partito dove chi governa, governa elettori, non cittadini.
La verità è che essi non sono così diversi da coloro che volevano, nei proclami, spazzare via.
Come i maiali di orwelliana memoria, miseramente, sono persino un poco peggio.

Nessun commento:

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...